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Arnold Böcklin |
L’azione terroristica ha incrinato in noi occidentali quella condizione base della vita quotidiana che è la prevedibilità del domani, senza la quale non prende avvio alcuna iniziativa, e le azioni che abitualmente ci impegnano ricadono su se stesse, perché perdono importanza, spessore, investimento, valore. Al loro posto subentra, sottile e pervasiva come condizione dell’anima, quell’angoscia primitiva per difendersi dalla quale l’uomo occidentale ha inventato la sua storia. Quest’angoscia si chiama: angoscia dell’imprevedibile. [...]
L’angoscia è invece un sentimento paralizzante di fronte a un pericolo invisibile e indeterminato, da cui l’attacco o la fuga non ci difendono, perché il pericolo è ovunque e in nessun luogo, può essere in questo momento o in qualsiasi momento, per cui il meccanismo che si attiva non è quello difensivo della paura, ma quello paralizzante dell’angoscia. […]
La condizione d’assedio, più che territoriale, è psichica. E quando è imprigionata l’anima, come si fa a produrre cultura, arte, scienza, musica? E quale linguaggio hanno a disposizione gli affetti, gli amori, le speranze, i progetti, i dolori? Ma, soprattutto, di quali strumenti dispone la nostra psiche per trattare la dimensione dell’imprevedibile con cui noi occidentali non abbiamo più consuetudine dall’alba della nostra storia? […]
Lanciati nel nostro sviluppo che non avviene a spese di nessuno, perché, già ce lo ricordava Omero, “Nessuno” nasconde sempre il nome di qualcuno, forse abbiamo dimenticato la misura e siamo diventati s-misurati. E magari con qualche colpa, se è vero che il nostro stile di vita richiede di raccogliere energia viva dai quattro angoli della terra per restituirla degradata.
Questa è la riflessione che dobbiamo avviare se vogliamo fare i conti con la nostra angoscia, che è lì a dirci, prima del cecchino dietro l’angolo, prima dell’attacco batteriologico, prima di quello atomico, prima dell’attentato terrorista, che forse abbiamo oltrepassato la misura e dobbiamo rientrare nel limite.
Rimuovere questo avvertimento dell’angoscia collettiva, non volerlo riconoscere, ci obbligherà a convivere con l’inquietudine che, come un tarlo, roderà dall’interno il nostro benessere, ormai divaricato dalla quiete dell’animo e dalla sua serenità. A questo punto non ci resta che tornare alla sapienza greca che aveva fatto della misura (katà métron) il fondamento della propria etica, e perciò avvertiva: “Chi non conosce il suo limite tema il destino”.
In: "I miti del nostro tempo (Il Mito del terrorismo)", di Umberto Galimberti